Si tratta di una categoria introdotta dall’antropologa Nancy Sheper-Hughes. Secondo la studiosa esiste un continuum tra i grandi genocidi della storia, come la Shoah, dove consapevolmente sono state massacrate milioni di persone, e le piccole violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate che si praticano «negli spazi sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie d’ospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori pubblici. Questo continuum rinvia alla capacità umana di ridurre gli altri allo status di non-persone, di mostri o di cose», per mezzo di varie «forme di esclusione sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione, pseudo-speciazione e reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la violenza verso gli altri» [Scheper-Hughes 2002, 290]. Si tratta, dunque, di piccole guerre invisibili all’interno delle istituzioni, perpetrate nei confronti dei più deboli perché percepiti come diversi, come non umani. La consapevolezza che ciò potrebbe portare ad enormità come la Shoah, secondo la Hughes, ci deve portare ad uno stato di ipervigilanza difensiva, di costante sorveglianza perché questo non si compia.
Fonte: Dei F., Antropologia della violenza, Roma, Meltemi Editore, 2005.